“Coltura luogo di Cultura”: alla riscoperta del suono perduto

Lunedì 17 aprile, tra occhiate di sole e maltempo incombente, si è tenuta l’inaugurazione dell’incastellatura in legno restaurata del Santuario della Madonna della Coltura presso Lenna, in Alte Valle Brembana. Giornata affollata nonostante il cielo plumbeo, con diversi curiosi sin dalla mattinata intenti ad ascoltare il suono delle campane a tastiera e le campanine dei campanari che esercitavano il proprio repertorio nello spiazzo antistante il Santuario in vista del concerto pomeridiano. Nel pomeriggio la Santa Messa e il concerto di campanine hanno fatto da corollario alla presentazione del restauro, iniziativa voluta dalla Federazione Campanari Bergamaschi per spiegare il reale significato del ritorno in vita del rovere e del noce, protagonisti assoluti del suono delle campane antiche.

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Il Santuario, posizionato in un autentico locus amœnus in fondo alla piana di Lenna, costellata da numerose industrie che pur costituendo una risorsa lavorativa per l’alta valle minacciano l’equilibrio naturale del piccolo centro, rappresenta un luogo spirituale a sé stante, una sorta di hortus conclusus ideale in cui raccogliersi in meditazione. Meditazione nel nostro caso cortesemente supportata dal suono delle cinque campane “in ottavo di dò viennese”, come recitano i documenti d’archivio che attestano l’installazione di un nuovo concerto nel 1837. Gli studi rivelano che in realtà le campane commissionate alla fonderia Monzini furono quattro, in quanto si volle mantenere una quinta campana – la seconda delle grosse – risalente al 1718 e fusa da Bizzozzero di Varese. Tale campana proveniva da un precedente concerto montato a San Martino oltre la Goggia ed era stata volutamente mantenuta a ricordo dell’antico suono. Salendo in cella campanaria è sufficiente dare un’occhiata alle iscrizioni riportate sulla campana più antica per comprendere che tra la documentazione presente negli archivi e la realtà dei bronzi qualcosa non collima: gli archivi paiono difatti recitare che la campana del 1718 fosse stata fusa dalla fonderia Marinoni. Di Marinoni non v’è traccia: probabilmente si alludeva ad altra campana coeva presente sul territorio di Piazza Brembana – Lenna e in seguito collocata in altro loco o andata perduta.
La salita sul campanile, oltre a dimostrare la necessità di verificare sempre direttamente in cella quanto è scritto negli archivi, offre una spettacolare visione di quello che i nostri antenati potevano vedere due secoli fa nelle celle campanarie della bergamasca. Il legno ci parla e ci racconta la sua storia plurisecolare: sta a noi saper cogliere i suoi contenuti, comprendere le tecniche costruttive e, soprattutto, comprendere il perché dell’amore verso questo materiale. Una grande proprietà del legno, verificabile direttamente sul posto, è quella di sapere spegnere e assorbire tutti gli armonici secondari prodotti dalle campane. Ciò serve a mettere in risalto e a depurare il suono di ogni singolo bronzo. Chiunque di noi sia mai salito su di un campanile e intenda qualcosa di musica, nota perfettamente che, alla fine di una suonata a tastiera, si verifica un riverbero prolungato di tutti gli armonici prodotti dalle campane, i quali vengono mantenuti in vita per quasi un minuto dall’incastellatura in ferro o ghisa – nei casi più antichi. Ciò crea sovente contrasti sonori stridenti, con accordi maggiori che si trasformano in pochi secondi in minori, dissonanze insospettate, suoni che crescono e calano in un batter d’occhio. La nostra sensibilità appare decisamente minore rispetto a quella dei nostri antenati, che già alla metà del XIX secolo guardavano con diffidenza alle innovazioni proposte da ditte che propugnavano la sostituzione dei pericolanti castelli in legno con strutture in ghisa. Gli archivi parrocchiali di Romano di Lombardia provano che la fabbriceria diffidava attorno al 1870 della sostituzione del castello in legno con un telaio in ghisa, in quanto non sapeva come si sarebbe modificato il suono.
Non v’è dubbio che fare cultura campanaria non significa solo propugnare il ripristino del doppio sistema ma anche riproporre il modo antico e forse più autentico di sentire il suono delle campane. Forse nella civiltà dei rumori siamo meno attenti a questo fenomeno. Sicuramente in pieno Ottocento il rapporto tra rumore e silenzio e tra suono e silenzio era ben diverso. Basti pensare che per esercitarsi a suonare l’allegrezza (o il suono a tastiera), i campanari utilizzavano xilofoni in vetro. Che ne è di suono tanto esile nella nostra civiltà? Da ciò ne discende che l’operazione di riscoperta culturale viene a configurarsi su più piani: le tecniche costruttive applicate al legno, il suono della campana antica, il rapporto tra il suono della campana e l’ambiente circostante. Tra i concerti a otto campane elettrificati e posti sui campanili nel centro dei nostri paesi ormai dimentichi della tradizione del suono e i minuscoli concertini dei santuari intercorrono oggigiorno anni luce: è lo spazio dell’evoluzione sociale ma anche della perdita di un patrimonio culturale. Per tale motivo si è voluto con forza riscoprire il suono antico e riproporlo intatto. Dalla campana a ciò che la supporta, dalla tecnica costruttiva al luogo in cui essa è stata pensata, dalla riflessione sul suono alla riflessione spirituale: Coltura emblema di Cultura. Un piccolo gioiello da conservare.

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