Interviste agli informatori campanari. Caratteristiche del processo.
Nel campo dell’etnomusicologia le interviste e le ricerche sul campo costituiscono il punto di partenza fondamentale per una produzione rigorosa e credibile. Tratti particolari presentano le ricerche condotte nell’ambito del mondo campanario, rivolte a coloro che hanno operato e operano nel mondo delle campane come servizio o come semplice passione.
All’interno della nostra associazione abbiamo avuto e ancora abbiamo la possibilità di sondare diversi aspetti del mondo delle campane attraverso esperienze di vita variegate, che vanno da quella del sacrista/campanaro a quella del semplice appassionato, passando per il campanaro del puro suono a distesa allo specialista del suono a tastiera, dal pensionato volontario a chi invece ha svolto quest’attività come mestiere nell’epoca del tramonto del puro sistema di suono manuale dei bronzi.
Dall’individuazione dei soggetti interessanti per un’intervista – che sovente appaiono tali per disponibilità, affabilità, capacità di autoriflessione e sintesi delle proprie esperienze biografiche e musicali –si passa ad elaborare un primo canovaccio di domande ‘tipo’ di carattere compilativo, utili più a una schedatura iniziale che a un’indagine reale. L’esperienza ha difatti insegnato che le domande più indovinate vanno improvvisate e costruite sulla base delle risposte fornite dall’informatore. Spesso l’informatore dà per scontati alcuni termini di riferimento geografici e antropologici (conoscenza di località, feste, luoghi di lavoro o ritrovo del posto in cui vive): da qui nasce la necessità che il ricercatore si documenti adeguatamente, nel limite del possibile, sulle caratteristiche del luogo, per non sentirsi spiazzato e per non suscitare imbarazzo nel nostro informatore, che in questo caso potrebbe classificare l’intervistatore come inadeguato al tipo d’informazioni che fornisce se non chiudersi in risposte molto vaghe a causa di un canale di comunicazione povero di elementi di aggancio comuni tra i due soggetti implicati nel lavoro.
Uno dei primi ostacoli con cui ci si deve necessariamente cimentare è l’impiego della tecnologia nell’intervista, non tanto nelle difficoltà tecniche nel maneggio della videocamera o di un registratore, quanto della presenza di un oggetto estraneo alla conversazione naturale. Essendo l’intervista da considerarsi come una chiacchierata ‘orientata’ verso argomenti che premono a uno degli interlocutori (almeno nella fase iniziale), l’uso dell’apparecchio tecnologico deve risultare quanto più discreto, quanto meno nella fase di partenza. La reazione verso l’apparecchio che ‘immortala’ ogni gesto o ‘inchioda’ ogni parola varia a seconda dell’indole delle persone. Più di una volta è accaduto che l’informatore non volesse essere ripreso, per cui ci si è limitati ad accendere la telecamera, lasciandola appoggiata su una superficie vicina allo stesso informatore, affinché si potesse captare la voce. Nella maggior parte dei casi, con il passare dei minuti, vincendo la timidezza, entrando in confidenza e creando un primo approccio informale e amichevole, si è riusciti a riprendere in mano la telecamera e riuscire a cogliere non solo la voce ma anche il viso del parlante. Questo soprattutto nel momento in cui il campanaro suonava; una volta effettuato un brano, la timidezza tende a sciogliersi e l’intervistato accetta in misura più o meno consapevole la presenza di una macchina da presa video/audio.
Non vi è il minimo dubbio che il coinvolgimento dell’intervistato dev’essere massimo sin dalle prime battute, lasciando intendere che le sue parole sono per noi fondamentali e che su quanto racconta si va a colmare una lacuna di conoscenze pressoché assoluta. Dichiarare esplicitamente l’obiettivo e il grado d’interesse del lavoro fa comprendere all’intervistatore l’importanza di ciò che sta facendo, stimolandolo, in forma involontaria, a collegare tutti i possibili dati esperienziali che possano aiutare il ricercatore a costruire un quadro di contorno esaustivo della sua prima indagine. La reazione degli informatori di fronte alla proposta di ricerca dipende dal carattere della persona con cui si trova a interagire: vi sono figure istrioniche che si accendono davanti a una telecamera pur mantenendo un profilo collaborativo e attivo; altri risultano impacciati e intimiditi; altri ancora dichiarano di non ricordare più nulla di ciò che intendevano dire. Sta proprio all’indagatore mettere a proprio agio chi ci racconta, per evitare che il racconto possa assumere una forma di rigido colloquio, se non peggio ancora, d’interrogatorio.
Un incontro dà generalmente esiti positivi quando soddisfa una serie di requisiti. In primo luogo poter creare un contorno affettivamente vivo circa la narrazione: non bisogna dare la sensazione di essere stati calati col paracadute in un luogo sconosciuto, ma di avere già tastato terreno e avere fatto tesoro degli elementi che ci hanno condotto sino alla persona che desideravamo conoscere. In secondo luogo è necessario avere un sicuro dominio dei riferimenti culturali del contesto sociale cui ci si riferisce onde non apparire come un estraneo, se non peggio, come un intruso. Premesso questo, si scende nel dettaglio del lavoro e inizia il contatto diretto con la persona. È molto importante considerare ogni persona intervistata come a sé stante, evitando cioè di menzionare altri soggetti che possano sottendere giudizi o opinioni contrarie. Piuttosto, appare utile chiedere quali persone conosca o conoscesse il nostro intervistato (ad esempio se un campanaro era in contatto o amicizia con altri campanari o suonatori, o se li conosceva semplicemente di vista). Va sempre tenuto presente che in contesti sociali diversi dal nostro attuale alcune figure godevano di grande rispetto e prestigio, ma tale ruolo veniva riconosciuto all’interno di piccole comunità: poteva essere che essere che un ottimo campanaro fosse molto apprezzato in altri paesi vicini come invece non accettato da altri o addirittura ‘bandito’.
Tra gli interrogativi più comuni che si pongono per entrare in confidenza con la persona troviamo: riti e segni con le campane; tecniche di suono impiegate; origine delle suonate seguite (tecniche di apprendimento tramite semplice parecchio piuttosto che partiture o osservazione di altri suonatori); maestri da cui si è appreso la tecnica di suono; suono di altri strumenti musicali oltre alle campane e rapporto tra questi strumenti e le campane stesse; elaborazione di composizioni proprie o rielaborazione di brani appresi da altri suonatori; conoscenza delle feste religiose e dei riti locali; storie e vicissitudini legate agli ‘oggetti musicali’ (campane e campanine, uso della tastiera e delle corde, eventi bellici, fusioni e rifusioni di campane, fenomeno dell’automazione delle campane); rapporto con parroci ed enti religiosi locali per cui si è prestato servizio; relazioni con la popolazione locale in relazione alla notorietà pubblica di cui si gode o godeva.
Da questo coacervo di domande – che spesso s’incrociano con informazioni davvero sorprendenti che conducono a riformulare il campo di giudizio e di prospettiva – possono nascere molti incontri, attraverso i quali l’indagatore va sempre più a fondo cercando di trarre risposte certe per la propria ricerca. Può accade più di una volta di tornare su domande già poste per ricevere ulteriori dettagli. Ottenere fotografie d’epoca può essere di enorme aiuto per ottenere notizie insospettate, narrazione circostanziata di eventi, risalire ad altre musiche oltre a quelle che si sono potute registrare nei primi incontri.
Le domande che il ricercatore rivolge possono portare a raccogliere molteplici informazioni. Va tuttavia precisato che molto dipende dall’elasticità dell’intervistatore nel captare il filo del ragionamento dell’informatore, che spesso segue un criterio rispondente a una visione della realtà che si rifà a un contesto storico-sociale dissolto. Partire e voler seguire una canovaccio rigido può rivelarsi fallimentare in quanto il nostro informatore potrebbe lasciare vuote alcune nostre caselle, mentre starebbe a noi aprirne di nuove nel corso del discorso. Il contenuto della conversazione può abbracciare eventi famigliari o biografici che apparentemente non hanno a che fare con le campane, ma che in realtà abbracciano la visione e l’esperienza che l’informatore possedeva in un determinato periodo della propria esistenza. In questo, molto dipende anche dalla capacità di saper filtrare la propria esperienza e di veicolare i contenuti che possono essere richiesti.
Tra i casi più interessanti abbiamo quelli del ricordo di brani musicali composti da campanari scomparsi che il nostro informatore aveva solamente udito ma non appreso: ci siamo dunque trovati di fronte a una ‘prima assoluta’ di pezzi non più eseguiti dopo la scomparsa o cessata attività di un determinato suonatore. In altri casi siamo riusciti a ricostruire l’intero calendario di suono durante l’anno liturgico e, se il campanaro era anche sacrista, tutti i segni che venivano dati per le diverse funzioni e messe. Tale fatto appare d’interesse davvero notevole in quanto, con l’automazione dei concerti, in molti casi le ditte del settore hanno proposto un sistema di suoni standardizzato che teneva limitatamente conto delle tradizioni sonore del luogo. In questo modo il campanaro anziano smetteva di suonare e dimenticava col tempo i brani, rimpiazzato da una macchina che riproduceva sequenze omologate.
In conclusione, il senso della ricerca, a livello più ampio, vuole essere non solo quello di condurre indagini ai soli fini della ricerca, ma di offrire un contributo alle comunità che hanno offerto spunti di analisi di una realtà sociale, giungendo in tal modo al fenomeno della ‘restituzione del patrimonio’ e della sua condivisione con le giovani generazioni.